Author: Wandering Sights
Gli inediti di Nataša Sardžoska
Nella pubblicazione Nous sommes tous des cannibales (Seuil 2013) l’antropologo Claude Lévi-Strauss riconosce alla società occidentale contemporanea una spiccata proprietà antropofaga, dal momento che l’avvicinamento all’altro e la consecutiva volontà di farlo proprio passa per un’introiezione, reale o figurata, dello stesso. I versi di Sardžoska, creando un’identificazione dell’io con oggetti o costruendo situazioni nelle quali la compresenza io-tu può fare ritorno, cercano di ricostruire il ponte tra sé e il non sé, a cui spetta il ruolo di oggetto d’amore. Il corpo che si protrae per poi ritrarsi diventa, in questi inediti, la rappresentazione tangibile di un’attesa sofferta e in continua potenza, il cui atto è rimandato a un’esistenza forse incapace di compiersi. Eppure Sardžoska, ancorandosi alle cose e agli spazi, riesce a tenere salde le redini del suo percorso di ricerca e a fare del vuoto che resta sostanza sufficiente per tenere a bada la fame d’amore.
ALESSANDRA CORBETTA
L’acqua che tu bevi
vorrei essere l’acqua che tu bevi
mentre lavori mentre ti svegli da solo
nella notte impaurito dai sogni che non sono tuoi
mentre viaggi da un punto all’altro della città
che non hai voluto abitare mentre prendi fiato
dopo i corpi che hai lasciato dietro
i tuoi movimenti: che non hai voluto abitare
vorrei almeno per un attimo essere
l’acqua che ti bagna le labbra assetate
la pelle la pioggia scoppiata dalla nuvola
pesante dei tuoi cieli cupi
l’acqua che ti dona l’allegria del deserto
che ti porta il giorno e la memoria
vorrei tanto essere così trasparente e vitale
così indispensabile: per te.
Acquaforte
bisogna spietrificarsi
ridurre l’inganno
alla sua nullità
dare la possibilità
al foglio di erba
di crescere nella sua innocenza
soffiato dal vento
senza origine
senza direzione
incidersi il sogno nell’ordine
portarsi dove la vita
non aspetta di essere vissuta
dove ci sarà un’onda leggera
che pulisce tutti i dubbi e gli abissi
dove traslocare senza bagagli
e vivere: vivere la vita per cui
noi due siamo nati
la vita dove potremo nascere
anche dal niente
Mentre ti aspetto
ti aspetto
e aspetto mentre ti aspetto
e mentre ti aspetto mordo la lingua:
ne sangue esce: quindi sono ancora viva.
mentre ti aspetto leggo libri in fretta
mi distraggo e moltiplico l’amarezza
del caffè l’oscurità del vino
e il mondo che ci affoga
nella stanza ho accarezzato
il piede che hai amato tu. scritto
libri con la furia di terrorista suicida
convinto che il suo ultimo giorno
è il prezzo della gloria. giocato
a pallamano con i miei nervi lacerati
i bicchieri le tue parole il tuo onore. mi
perdonerai: ho scritto versi inzuppati
di sangue di lacrime di saliva. ascoltato
discorsi futili dei camerieri
che mi portavano il resto
di noi del mondo
di te i resti in me restati. ascoltato
vecchi cd dell’epoca quando non
pensavo che miles davies potesse così bene
accompagnare questa maledetta solitudine
e che tu potessi esistere. invece:
non esisti mentre ti aspetto.
*
ti aspetto e mentre ti aspetto
ho letto libri di cui non ricordo nulla
sennò che l’essere si nutre di sangue
e di menzogne finché non si sveglia
e abbraccia la verità e il sangue vero e puro.
ho guidato bici che mi avevi regalato tu
per allontanarmi da ogni malattia
da ogni tempesta. mi sono masturbata
chiuse le persiane chiuso il cuore: non ti
ho tradito. mai.
ho camminato nel tuo sogno senza reggiseno
per le strade della tua libertà in catene
volato nel tuo cielo in gabbia
ho gridato nel bosco e non ho mangiato nulla
ho bevuto le grappe dei mendicanti e dei vagabondi
mi sono appesa alla finestra visto la la land
ascoltato lucio battisti sfogliato pasolini
con molta tristezza di averlo fatto
senza di te: ho parlato senza ragione
senza religione. ho battuto la testa contro il muro
al chiodo ho appeso le tue parole e
in silenzio solo sola ho fatto il patto con te:
ho nuotato dove i pesci sapevano di noi
ho rovesciato le tue leggi e imputazioni
sono salita all’albero della tua camera da letto
ho provato a saltare e a stendermi accanto a te
come l’aria
sparsa
e apparsa
sopra il ponte cavour:
ma ho rubato le tue notti
e mi sono lanciata
nel vuoto
Il nostro letto
in questo letto abbiamo
vissuto solitudini in due
in questo letto abbiamo dormito
io con le tue pressioni
tu con le mie passioni
davanti a questo specchio
ci siamo guardati:
tu con il mio ardore
io con il tuo timore
Amanti senza testimoni
è arrivata la morte
la sorniona amante dell’autunno
però noi ecco noi
non siamo esistiti da nessuna parte
e nessuno potrà mai testimoniare il
nostro amore perché
ci siamo abituati a vivere
l’uno senza l’altra
nell’assenza gelida
delle parole scritte
solo per sopravvivere
ci siamo abituati ad aspettarci
alla fine della linea dell’ultima fermata
a non chiedere che ci aprano la porta
(perché non scenderemo mai
perché non andremo mai
da nessuna parte)
a non bussare più alle camere
dove (sappiamo)
non dormiremo
mai più
Il corpo come una crisalide: poesia che non teme il vuoto e non rifiuta il grido. Sulla poesia di Giselle Lucia Navarro
Non importerà mai quello che decidi.
Un amore nasce anche se non vuoi
anche se non hai più un cuore,
anche se muori.
Giselle Lucía Navarro(Alquízar, Cuba, 1995) è una poetessa, narratrice, designer e manager culturale. Si è laureata in Disegno Industriale presso l’Istituto Superiore di Design dell’Università dell’Avana e diplomata al Centro di Formazione Letteraria “Onelio Jorge Cardoso”. Professoressa all’Accademia di Etnografia dell’Associazione delle Canarie di Cuba, dirige il Gruppo letterario “Silvestre de Balboa”. Ha ottenuto diversi riconoscimenti tra cui il Golden Age Award 2018, il New Pinos 2019 e il David of Poetry 2019 assegnato dall’Unione degli scrittori e degli artisti di Cuba. Ha ricevuto menzioni nei concorsi internazionali Ángel Gavinet (Finlandia, 2012), Poemas al Mar (Porto Rico, 2012) e Nósside (Italia, 2019). Ha pubblicato Counterweight (2019). I suoi testi sono stati tradotti in inglese e francese e pubblicati in antologie e riviste di Cuba, Spagna, Cile, Perù, Stati Uniti, Colombia, Messico, Finlandia, Venezuela, Argentina, Porto Rico, India e Belgio.Può essere considerata come una delle maggiori poetesse cubane contemporanee.
La sua poesia conosce gli abissi terrestri e celesti, le geometrie interiori del corpo umano, ma non teme il vuoto, anzi: ne esplora i confini, le frontiere interiori, fiorisce in color sangue, viola, porpora, fuxia. Le sue sono delle parole, dei fili verso un mondo ineffabile, indicibile, irraggiungibile che chiama con urgenza la libertà, la totale devozione e predizione contro l’orrore del mondo. Audace e coraggiosa, Giselle cammina sulla strada dell’universale foresta poetica latino-americana e crea un ritmo tessuto di simboli e metafore sconvolgenti, conturbanti, che qui, da lei, diventa un tessuto fatto di contrasti, assonanze, analogie, sineddoche, incomprensibili associazioni dove la consapevolezza del mondo avviene attraverso gli organi che segnano i confini invalicabili. L’autrice si tuffa nel vuoto, esplora e varca le frontiere al di dentro, s’immedesima con l’isola, con la costa irraggiungibile come l’aria dentro se stessa: «Voglio sentire cosa segna il confine dentro de me, / essere l´isola, il paese, i suoi versi, l’aria…».
La sua è una poesia di metafore belliche veementi, di scontro, di urto, di collisione, è un continuo susseguirsi di contrasti, salti e sorprese. La sua lingua è allo stesso tempo tenera ed esplosiva, come se nello sguardo centrale del ciclone ci fosse un annuncio di un avvenimento al di là, una pace e una speranza al di fuori del confine sperimentato dalla poetessa.
Una poesia del sangue, che parla con la lingua impossibile del volo, una poesia che si esime dal corpo, che si libera da esso per raggiungere la libertà, in una terra che opprime, che è impossibile da cogliere, impossibile da vivere, da abitare, in una patria che non s’intravede nemmeno, ma s’incontra in tutti i visi tormentati del sangue, in un luogo ai confini dei luoghi, in una Cuba tormentata dove la poetessa consuma il vuoto come se fosse un nucleo vitale, in un gesto ribelle di un rifiuto alla radice che semplifica un’umanità sempre più pluriforme e incommensurabile e quindi astratta e apatica: «Il mio corpo come una crisalide, / strana radice, / una scarsa armatura per l’essere, / si erge sulle tracce di ogni sua fibra e impulso, / nei sensi e negli odori umidi / che mi costringono a nascere, / mentre il verso mi soffoca / mentre la parola urla / e il lato sbagliato di questa voce mi attraversa».
Giselle delimita e disegna una corporalità talmente abituata a frizioni, urti, colpi, tradimenti e delusioni, che diventa insensibile, una carnalità che non può più prodursi e tradursi nella realtà dirompente di tutti i giorni: «il mio corpo un pezzo insensibile di carne / e benché la mia testa cadesse come un muro / abituato a forti colpi».
La parola poetica di Giselle è talmente vera e solida che sembra «una roccia scagliata sulla testa». Il suo gesto è trasparente e lucido, libero da ornamenti superflui o agganci patetici che rischiano sempre di trascinare la poesia verso il diluvio, verso l’affogamento, perché lei sa che l’arte metafisica della poesia consiste nel dire poco per svelare tanto, spesso fin troppo. Il poeta è sempre un po’ architetto, sostiene il poeta catalano Joan Margarit, perché costituisce e costruisce una costruzione solida, un corpo, una struttura, un’armatura ferma con poco materiale, con una materia prima, con poche parole.
Il poeta si muove sempre controcorrente perché offre, associa, stabilisce e crea significati inediti alla parola. La poesia è un movimento di scandalo perché rivoluziona e rovescia il significato della parola. Nel suo stato di eccezione diventa un continuo rovesciamento di parole e reinvenzione di significati. In questo senso, il poeta è rivoluzionario perché offre sempre nuovi agganci e nuovi nessi tra la parola e il pensiero, tra il mondo e il vissuto.
La poesia di Giselle è una lotta contro il silenzio che si presenta come punizione insopportabile in un mondo dimenticato che non ha riflessi, nemmeno richiami, echi, rimbombi; è un continuo cercare di ribellarsi alla forma, al confine. Il ritmo diventa un albero che confina con la veemenza di una foresta intensa e densa di luce e controluce, una rete di melodie e di metafore invadenti, magari anche violenti, ma sempre decontestualizzate, trasparenti, trascendenti, pure: «C’è un silenzio nell’aria / e il mio cuore non comprende / l’immobilità // Ci separa un mare e un muro / di tempo che non fa coincidere / la distanza».
Giselle, con le “stelle negli occhi”, con sangue fervido, mano bollente e con ribellione, scrive versi coraggiosi, decisi, senza cadute, semmai incline alle cadute libere sul confine del vuoto, pronta a lanciarsi, a gettare il corpo per provare quel sentimento ignoto di libertà che solo un gabbiano che sorvola l’infinito blu del mare e del cielo le possa infilare nel sangue. Così, mandando un messaggio forte, sconvolgente, trasversale: «Ma essendo 23 e mordere la protesta, / dire che la vita e il mondo sono terreni duri / e che ci sono cose impossibili / sicuramente ti rende un codardo».
Giselle offre una linea di lettura decisamente limpida, priva di sfumature e sbavature pesanti o patetiche o asimboliche. Per essere liberi, non bisogna dipendere dal corpo, così ci indicano i suoi versi seppur nella loro a-corporalità: «La notte mi restituisce le solitudini, / tele macchiate di odio e di distanza / per legarmi le mani e i piedi». La sua poesia è seducente, avvolgente, così com’è anche lei. Soave e tenera, passionale e sensuale, pronta ad “azzannare” i tempi oscuri, carica di risolutezza, fermezza, veemenza, decisa a rassegnarsi alla convinzione che “la libertà non esiste”, in nessuna parte, tranne nella verità e nella violenza che noi facciamo dentro e contro noi stessi per raggiungere ed emanare il nostro grido intimo per la libertà: «Mi credevo colpevole, soffocata nella polvere / dei tempi oscuri, / attorniata da fantasmi perduti, /che provavano a cogliere fiori rossi con semi azzurri. / Tante volte mi sono rifiutata il grido».
Alcuni testi tradotti:
Processo per trovare il poeta interiore
Di GISELLE LUCÍA NAVARRO
Traduzione di AMOS MATTIO
Il mio corpo come una crisalide,
strana radice,
una scarsa armatura per l’essere,
si erge sulle tracce di ogni sua fibra e impulso,
nei sensi e negli odori umidi
che mi costringono a nascere,
mentre il verso mi soffoca
mentre la parola urla
e il lato sbagliato di questa voce mi attraversa.
Per questo scrivo
anche se non sento crescere la follia che anticipa il verso,
che mi mette a nudo,
che mi scalda con la stessa mano,
anche se non so cosa succede
dall’altro lato di quello che descrivo.
Scrivo dalla struttura viscerale
di tutte le mie facce,
di tutti i miei colori,
di tutte le mie paure,
anche se non ci fosse desiderio
le mie frasi si fossero esaurite,
la parola una roccia nella testa di qualcuno,
il mio corpo un pezzo insensibile di carne
e la mia testa cadesse come un muro
abituato a forti colpi,
anche se il silenzio fosse questa bandiera
che brucia con le spalle al sole.
Scrivo
anche il cuore non esistesse,
o fosse cieca, sorda, pazza, morta…
perché so che qualcuno sta aspettando la mia parola
in qualche angolo dell’universo,
qualcuno che ha bisogno di vedere il gancio per uscire
dalla buca,
sentire,
tornare indietro e salvare gli altri,
per vedere il fuoco e rinascere.
Scrivo da uno specchio che non ha una faccia propria
e se la nostalgia mi trafigge con la sua ferita,
sono pronta.
Voglio sentire cosa segna il confine dentro di me,
essere l’isola, il paese, i suoi versi, l’aria…
essere un altro albero spoglio
in equilibrio sul tocco di tutti i suoi riflessi,
l’istante
in cui nonostante il tempo,
i colpi e l’effimero del corpo,
senza sapere, senza fingere, senza spiegare,
io esisto di nuovo.
Quando la calma invecchia
Di GISELLE LUCÍA NAVARRO
TRADUZIONE DI DAVIDE BARILLI
Il mondo cresce velocemente
nella pelle della mia finestra.
Si ripete la mattina
e il pomeriggio nella mia camicia.
C’è un silenzio nell’aria
e il mio cuore non comprende
l’immobilità. Si dilata
un desiderio nella mia testa.
Cala la notte sul mio tavolo
mentre la carta si incendia.
Solo la mia parola è ponte
per alleviare il silenzio.
Quando armo la penna
sento qualcosa nella mia pelle.
Una nostalgia percepisce
l’insonnia che mi inonda.
La solitudine del mio cuscino
mi soffoca nei suoi circuiti
e in questa casa e nelle sue pareti
va crescendo, profonda.
Ci separa un mare e un muro
di tempo che non fa coincidere
la distanza. Mi aiuta
la tua parola nel mio incantamento.
Qualcosa emerge prematuro
tra l’assenza e il fortunato tredici.
Qualcosa d’innocente sembra
farci indugiare a pensare.
Qualcosa mi spinge a seminare
quando la calma invecchia.
Questa clausura non blocca
il mio movimento, anche l’insonnia
mi fa stringere il fazzoletto
sopra il viso. Qualcosa sostiene
la mia parola, qualcosa rimanda
al mio bacio e il tuo abbraccio immenso.
Qualcosa definisce la sospensione
mezzo vivo mezzo morto.
Qualcosa mi dice che è sicuro
questo atteso inizio.
Mentre la carta si incendia
cresce un albero nel mio tavolo.
La città nella mia testa
mi scrive ali, si estende,
e il mio cuore comprende
il silenzio che agonizza
nella via e nella mia mattinata,
se nella pelle della mia finestra
il mondo cresce in fretta.
[1] Natasha Sardzoska (Skopje, Macedonia, 1979) poetessa, scrittrice, antropologa, traduttrice poliglotta e saggista. Ha vissuto e lavorato a Parigi, Bruxelles, Milano, Stoccarda, Barcellona e Lisbona, attualmente vive a …….. Ha ottenuto il dottorato in Antropologia all’Università degli Studi di Bergamo, alla Karls Eberhard Universität a Tübingen, alla Sorbonne Nouvelle Paris 3. Attualmente lavora quale ricercatrice presso il Centro di Studi Avanzati di Fiume. Dirige la rubrica di poesia della rivista canadese «Borders in Globalization» e collabora con «Radio Capodistria». Si occupa di traduzioni letterarie dall’italiano, dal portoghese, dallo spagnolo, dal francese e dal catalano. In macedone – sua lingua madre – ha tradotto molti scrittori tra i quali Pier Paolo Pasolini e José Saramago. Ha pubblicato i libri di poesie La camera azzurra (1999), Pelle (2013), Lui mi ha tirata con corda invisibile (2014), Acqua vivente (2017), Osso sacro (2019). Oltre che nel nostro Paese, ha pubblicato raccolte di poesie negli Stati Uniti e in Kosovo. Alcune sue poesie figurano in alcune antologie e riviste internazionali. Tra i principali premi da lei vinti figurano il Premio Napoli e il Premio di Poesia “Don Luigi Di Liegro”.
sessão vagalume | Natasha Sardzoska, por Prisca Agustoni
Natasha Sardzoska — Interno poesia
La poética de Nataša Sardžoska
Por Giselle Lucía Navarro
Mi primer encuentro con esta poeta fue a través de una publicación en la revista Refugios, de Argentina, en la que ambas colaboramos, luego leí algunas de sus entrevistas y fue un enorme redescubrimiento. “Escribo poesía porque quiero traducir mis visiones metafísicas en un lenguaje palpable (…) Para ser poeta, tenés que ser valiente y sincero”, dijo en una ocasión. Había tanta poesía en sus experiencias de vida como en sus textos, una energía espiritual que te impulsaba a crear, como si la conocieras desde hace mucho tiempo y esa mujer fuese una vieja amiga. Había algo sencillo y sincero depositado detrás de cada palabra. Las traducciones, vestir y desnudar la palabra de un idioma a otro, a veces suponen cierta pérdida, pero lo vital permanece.
Nataša Sardžorka nació en Skopje, Macedonia, en 1979. Es poeta, escritora, periodista, antropóloga, profesora, bailarina y traductora (FR, ES, IT, EN, PT, CA). Doctorada en antropología por las universidades Eberhard Karls de Tubinga, Sorbonne Nouvelle de Paris y la de Bérgamo. Ha vivido y creado en París, Roma, Milán, Stuttgart, Bruselas, Lisboa, Heidelberg, Rijeka, Perpignan, Barcelona y Skopje. Ha publicado los libros de poesía: Habitación Azul, Piel, Él me arrastró con un hilo invisible, Agua viva y Coxis, ensayos en revistas internacionales, novelas cortas y cuentos en la antología Asombro. Su libro Piel fue publicado en Estados Unidos y en Italia, y su libro Coxis en Kosovo e Italia.
Su poesía se ha traducido y publicado en diversas revistas literarias internacionales. Participó en muchos eventos y festivales, entre ellos, el Festival de Poesía de Bratislava, en el museo Revoltella de Trieste, el festival Parole Spalancate de Génova, el Festival de Poesía de Berlín junto a su improvisación de danza jazz y poesía, y el festival de poesía Sha’ar Helicon en Tel Aviv, acompañada por saxófono y contrabajo, en una improvisación de danza contemporánea. También en varias ciudades de los Balcanes (Belgrado, Sofia, Rijak, Plav). Su poema Muñeca de cuerdas fue publicado en inglés y español en la antología internacional contra el abuso infantil por el Festival Internacional Grito de Mujer.
Con un lenguaje directo, deshabitado de adornos y discursos impropios, Nataša urde sus versos como quien dibuja su pasado, el pasado que vivió en su piel o en su cabeza. El padre es una figura recurrente, un hilo que marca el hogar, la sangre, la raíz… en una poesía contaminada por todos esos impulsos creativos que la circundan. Lo corporal, lo femenino, la sociedad, la marca de todo lo que le rodea, los pasos que avanzan, el ojo que mira, que siente, el cuerpo que emigra, el cuerpo extranjero, la mujer de cara a su soledad, el recuerdo, la carne, el dolor, su mundo interior traducido en palabras sobre el papel. Todo dibujado con la crudeza necesaria, sin disfraz.
Nataša se maquilla, baila tango, recita poesía, interpreta palabras en idiomas que atraviesan su cabeza y hacen de su cerebro un motor ágil, sonríe y escribe. Dibuja su libertad en cada gesto. Su país no existe en ninguna parte, como asegura tantas veces en su palabra. Su país es ella misma y su conciencia.
SIN HOGAR
vivo en espacios extranjeros entre gente extranjera muevo mi cuerpo gente que no esculpe mi existencia sino solo mis sombras soy el pasaporte agarrado en las credencias de las recepciones de hotel me pasan por alto las señales perdidas en el éter de las estaciones de radio de las cabinas telefónicas llamo y busco la voz de mi padre ella gorgotea en el eco de la distancia nos separa solo el vidrio sudado de respiración me llamo con muchos nombres y pertenezco a muchas naciones pero solo este cuerpo me pertenece aunque me estoy separando de eso para volver a mí en mi padre en mi hogar que no existe [y que nunca existió] en un nombre que no existe excepto el que me impusieron: clavado desde el corazón de mis huesos fracturados
DI-AMANTE
vos y yo dos grandes silencios en el mar dos manos que no tocan pero alcanzan caminamos en la estepa de esta ciudad salvajes por la desobediencia del mundo cosechamos la aguda brillantez por dentro para encontrarnos para limpiar todas las manchas para destruir todos los mundos en un respiro para cristalizar las gotas de nuestros cuerpos voy y yo dos grandes silencios en el mar dos manos que no tocan pero alcanzan. (Di-amante, traducción por Elsa Barreda Ruiz)
COXIS
pido perdón por mi país acurrucada sibilante hinchada vena se dispersa esta condena y dos veces resuella en cada paso fronterizo y germina luego en un mar sin el derecho a ser nombrado el testamento insidioso del desierto hace eco en mis huesos en la patria renunciada tragada en los nervios torcidos alrededor de mi columna vertebral que limpia todo el polvo del mundo mientras me caigo esperando los ingratos atardeceres expulsada exiliada este poema no es hermoso para ustedes porque es solo una manchada de tierra en el puñado que salpica y colapsa como el semen del hombre que se vuelve padre en ese congelado instante de mudez cuando penetra y grita y gime y luego: desaparece
DESENCUENTROS
las flechas del reloj se detienen en el acantilado lastiman la vista los pasos fallados los cuerpos revelados te dije que te quitaras la ira enterrarla en barro y tierra para desgarrar la agudeza de la lengua para soplar la niebla sobre la ciudad para verme blanca y frágil aun derramada afuera de mí misma sin defensas elegidas sin palabras defensivas sin mí no hay tierra para ti ni habrá mientras huyes de ti mismo no hay dolor ni sombra que te esconda de tu luz ni brillo que te caliente en tu mentira tratarás de esconder todas las pulsaciones en los ojos pero brotarán de nuevo las llamas ardientes las lenguas de tu semilla los tiempos de nuestra raza [porque este tiempo cura y quema] como una carne salvaje donde nos sumergimos ahí te escondes como un cuchillo que busca algo en la herida abierta y las fechas por fin van a coincidir y la lengua desconcentrará y las palabras desteñirán pedazos sobrevividos de la mesa vacía seremos reducidos a silencio: el silencio de la elección de la que no se escapa.
SI NOS HAYAMOS SALVADOS
si nos hayamos salvados de la sed y del hambre si hubiéramos derrotado la trampa de la necesidad nos hubiéramos convertidos en jinetes sobre toda la mala suerte hubiéramos galopeado rápidamente por encima de las interrupciones neblinosas del cielo hubiéramos eliminado la hipocresía de la bandada que vuela solo por necesidad sin rumbo y sin destino un día al norte un día al sur ahora por encima de la rama florecida ahora por encima de la roña podrida nos hubiéramos convertido en números impares del rebaño de brujos solitarios: pero para todos los demás excepto para nosotros mismos
PALIMPSESTOS ROMANOS
mientras tu ala macabra ondea sobre ellos
(…) inquieto en ellos mi corazón late.
aco sopov
oigo la voz de mi padre en el barrio judío al lado de la sinagoga se desgrana a través de fachadas ocre-naranja y se derrama entre los adoquines no es capturada ni indignada es solitaria sin hogar y muda como una ola de tsunamis como un vencedor inesperado quien se acercó con amor a la justicia histórica por la noche las gaviotas aterrizan sobre los adoquines pican las migajas entre las piedras y devuelven al cielo la voz polvo de luz radiante: hay demasiada belleza en este mundo es inevitable es ineludible pero la voz de mi padre ya no la puede susurrar * el mundo te abandonó la primavera no florece más mágicamente y ya no la sentirás más tus jardines con romero preguntan por qué no estás el sol de abril quema tus persianas gélidas y ya no te alegrarás ni con los soles implacables ni con los más lentos que se van detrás de la luna y no habrá más luna excepto esta aguja de la soledad cristal extraviado dentro del bosque mudo manada de lobos hambrientos a la medianoche espejo del pasado que se quiebra áspero y pálido como un sol perdido lejos de su órbita enhebrando el hilo: el eje de mis agonías
roma, 4 de abril 2019
HIMEN
después de volverme al primer aval judío en la cama ensangrentada de la américa del sur bebí toda de una vez la violencia de la realidad [y el elíxir para una cara sin arrugas para piel de colágeno lisa como serpiente para un culo duro como una avellana] y me puse en la vagina un corazón crudo de gallina lo empujé con mi dedo medio bien en lo profundo de la pelvis así que me convertí en demiurgo de mis propias costillas
MUÑECA EN CUERDAS
Caminante soy por el asfalto mientras los conejos silvestres están gritando en agua hirviendo sacrificadas conspiraciones palabras no reveladas. En cada paso que tomo inhalo sangre para vivir. Estoy acostada en el chorro flores desconcertadas fluyen en mi cabello Tú y yo incalculables pasos de la carne una ciudad como cualquier otra que caminamos y no sabíamos y no nos conocíamos. Cuando todo está fermentando vivo en el agua vertiginosa las lenguas de los dragones muertos se levantan para decirnos estoy aquí: te sigo desde cada puerta del aeropuerto sé que cuando escucho tu nombre es una música con ritmo desconocido y tiemblo de tu mirada y perdí mi voz cuando viniste a mí y mi piel se estaba volviendo negra después de cada paso desconcertado de la tuya mis pezones duros mis labios ardientes como de invierno: sabía que éramos una misma ciudad una misma sombra una misma lluvia y la noche anterior a la que te conocí estaba llorando como una niña antes que tú entraras en el jardín japonés en mí podía oír gritando a todos los animales sacrificados estaba creciendo con descaro muda a horcajadas como una capa de trigo fértil en tu susurro abrumador humildemente levantada por encima de los estratos erradicados de la carne púrpura.
BAGAJE PERDIDO
entre dois grãos de areia por mais juntos que estejam
existe um intervalo de espaço
clarice lispector
quiero estar sola y lejos de los gritos vacíos de las mentiras desalmadas perdí mi bagaje en la pista y no quiero que me busquen los operadores de los aeropuertos para devolvérmelo no tengo miedo del día que atardece detrás del mar de truenos y palabras no le tengo miedo a la ciudad que está cayendo en mi cama de hotel aunque a un paso de mí matan a una chica testigo queman las casas de los gitanos cormoranes para la pesca engañados arrancan las presas como todos nosotros abandonados no tengo miedo a las arabescas nocturnas del silencio al mutismo impenetrable de la separación al eco de la oscuridad en la conversación de la cual todos huyen puedo salir y entrar en la insensatez crecí en las habitaciones amplias del amor frío mi infancia es tímida y solitaria no tengo miedo de no tener nada de permanecer vacía quiero dormir sola sola lacerar la melatonina y puedo apuntar mis ojos yo sola a la ventana de los saludos hipócritas al alba de la irracionalidad al horror del día y hasta cuándo las olas de sufrimiento vendrán para decirme que no habrá nada de lo que soñaba y esta soledad no me importa a dónde me llevará: en mí la vida arde estalla explota me ciega me quema y abrasa
Nataša Sardzoska
RIVISTA LETTERARIA LIDO DELL'ANIMA

Nataša Sardzoska (Skopje, 1979) poeta, scrittrice, interprete e traduttrice poliglota, antropologa, danzatrice, giornalista e saggista macedone, ha vissuto a Parigi, Brussels, Milano, Roma, Stoccarda, Barcellona e Lisbona. Laureata in filologia italiana e letteratura comparata a Skopje, prosegue i suoi studi con un master in studi letterari all’Università di Bergamo, Perpignan e Lisbona, lavorando su Pier Paolo Pasolini. Diffende la sua tesi di dottorato in antropologia alla stessa Università degli Studi di Bergamo, alla Sorbonne Nouvelle Paris 3 ed alla Karls Eberhard Universität a Tübingen. Ha insegnato alla Università Sud-Est Europea Max Van Der Stoel e alla Schiller International University a Heidelberg. È docente di antropologia presso l’instituto di antropologia e etnologia a Skopje e ricercatrice presso il Centro di studi avanzati dell’Europa del Sud-Est a Fiume. Collabora con la Radio Capodistria. È stata caporedattore della rivista Emanate della Commissione Europea. È attualmente editor di poesia della rivista canadese Borders in…
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Tree of Winter
Cold fire in the forest
Rough rinds on the edge of this window
I see: I burst shivering without thinking
in a burning inter-zone
that restores me
and glows and wriggles
my bones my womb
and yelps without my name
without your recognition.
A fish from a northern sea
You give me
a grasp of wheat and
you spit a bit of wine in my mouth
You are my race
my unease
turgid seeds
uprooted dry
layers
Your
skin
on my feet
Nataša Sardžoska, Poesie da “Osso sacro”
senzatetto
vivo in spazi estranei
tra stranieri sposto il mio corpo
stranieri che non incidono la mia esistenza
ma solo le mie ombre
sono un passaporto confiscato
nelle credenze degli alberghi
mi superano i segnali sperduti
nell’etere delle radio stazioni
da cabine telefoniche pubbliche chiamo
cerco la voce di mio padre
essa germoglia nell’eco della lontananza
ci separa solo il vetro traspirato di alito
mi chiamo con molti nomi
appartengo a molte nazioni
ma solo questo corpo mi appartiene
anche se da esso mi separo
per tornare in me stessa
da mio padre
nella mia casa
che non esiste
[che non è mai esistita]
in un nome che non c’è
tranne quello che voi mi avete imposto:
scolpito dal nucleo
delle mia ossa frantumate
vento vagabondo
il vento fischia dentro di me.
sono nudo.proprietario di niente, proprietario di nessuno,
nemmeno proprietario delle mie certezze,
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CONFINED BODY
this body is not my body
other bodies live inside me
bodies that I call mine
because to me they belong
to me they recall
I do have a pact
with all the microrganisms
inhabiting this body
seeking out for me
burning from within
screaming loud
for they want to get
outside of me
but I will never
give them
a cease-fire
*
this body is not my body
this body is every day haunted
by army and odd guests
they take what they want
they leave what they need
this body is nailed by winds
and they leave as fire defeats
from the nostrils
and they abandon
this body
empty
*
this body is not my body
inside this body there are hutches
yet I hide this body there
I help this body so that it keeps silent
while I seek inside the seesaw
the girl made of bones and nerves
yes: this body is not my body
it is made of storm of lava and larva
and swelter and scepter
and sceptic questions which punch me
from within my tongue is entangled
behind my teeth welded
convicted by the shooting wall
they blow away the wheat
and they leave just the sickle
inside my throat